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“Scrivere è libertà” – intervista su The Life Magazine

In occasione dell’uscita per i lettori francesi de Le dinosaure en plastique – traduzione di Joseph Denize dell’omonimo libro Il dinosauro di plastica, romanzo d’esordio del milanese Federico Scarioni – e in attesa dell’uscita della biografia di Omar Pedrini, Life Magazine ha intervistato lo scrittore il cui stile, vicino al postomodernismo americano, suscita interesse e rappresenta un segnale positivo per il sistema letterario italiano.

1. Sei uno scrittore emergente, giusto? Allora mi viene spontaneo domandarti: come si diventa scrittori oggi – ma più che diventare scrittori – come si continua ad esserlo, giorno per giorno, nonostante tutto?

Io ho esordito nel 2013 con un romanzo che si chiama appunto Il dinosauro di plastica, allora ero uno scrittore emergente e mi considero tuttora tale, nel senso che comunque penso che emergente lo sarò tutta la vita: la scrittura in Italia, ma come anche nel resto del mondo, a parte alcuni casi molto blockbuster, molto mainstream, non permette a una persona di vivere, quindi lo fai sostanzialmente per una questione privata; io personalmente lo faccio per un’esigenza molto personale, intima, un’esigenza creativa, narrativa. Quando mi sono messo a scrivere il mio primo libro, non l’ho fatto pensando al successo, alla fama, ai soldi, perché sinceramente non me ne interessava assolutamente niente, come non me ne interessa niente adesso.

L’ho fatto perché nella testa mi frullava questa storia e – come penso questo valga per tutti gli artisti, inteso come tutti quelli che cercano di produrre arte – finché una data storia non viene concretizzata, ti senti molto a disagio con te stesso. Anche io mi sentivo così: avevo bisogno di raccontarla e così facendo è diventata qualcosa di più di una semplice storia, o meglio, è diventata una storia in forma cartacea.
Per quel che riguarda il fatto di rimanere scrittori oggi: sostanzialmente io mi sento uno scrittore molto libero, non ho vincoli di produzione così come hanno magari tanti altri colleghi per esigenze economiche.

Sono indipendente e quindi utilizzo la mia arte quando mi viene l’ispirazione, e questa cosa è favorevole dal mio punto di vista, perché mi permette di essere molto sincero con le mie storie, con i miei lettori, e nello stesso tempo non mi blocca la creatività; c’è stato un periodo in cui certe case editrici mi hanno chiesto di scrivere determinati romanzi, un po’ su commissione, anche con degli pseudonimi diversi, come un ghostwriter. Io ho sempre rifiutato, un po’ perché non credo nelle falsità dietro questi lavori, un po’ perché non riuscivo a creare. Per me le storie nascono dall’ispirazione, da quello che leggo, da quello che vivo e da ciò che vedo, da lì traggo il punto di partenza per i miei romanzi.

2. Voglio provare a parlare del tuo libro senza averlo letto (ma di sicuro lo leggerò): di modo che questa intervista sia il più possibile oggettiva, non influenzata dal mio punto di vista.

Ti chiedo allora: Che cosa ti proponi di raccontare ne “Il dinosauro di plastica”? Come nasce questo romanzo, chi ti ha ispirato e in quanto tempo l’hai scritto? Il titolo del tuo libro è affascinante e non è banale. Come l’hai scelto?

La storia del Dinosauro di plastica fondamentalmente è una storia di tre donne: Gianna che è una donna anziana, Anna che è la protagonista del romanzo e che è una pittrice, e poi c’è una piccola bambina che si chiama Nia. Come si evince anche dai tre nomi, c’è un collegamento ideale tra di loro, la storia sostanzialmente narra di questa protagonista che vuole sfondare nel mondo dell’arte, però ogni volta che si trova in determinate mostre, sente la presenza di una vecchia misteriosa che si aggira e non capisce bene cosa succede. Parallelamente c’è la vita di questa Gianna, un’anziana signora che ha perso il marito e che è un po’ spaesata nella propria esistenza. Poi c’è la piccola Nia, una spensierata bambina che vive la sua età come tutti i suoi coetanei. Queste tre donne hanno vite diverse, non si conoscono, ma un giorno le loro vite magicamente si incrociano, fino a rivelare uno sconcertante finale.

Questo romanzo ha una genesi molto strana, infatti quando la racconto mi prendono per pazzo, in realtà è tutto vero. Ero ospite di un amico in una casa di montagna appartenuta a uno dei più famosi acquafortisti dell’800. Questo mio amico mi disse: “se senti rumori la notte stai attento perché è una casa stregata”. Io che non credo a queste cose, ovviamente ho dormito sogni tranquilli. La notte non ho sentito nessun rumore ma mi sono svegliato alle quattro di mattina con un sogno – di solito io me li dimentico i sogni – ma quel sogno era talmente forte, talmente suggestivo, pregnante, vivido che mi è rimasto impresso. E praticamente mi sono messo nella cucina di questo mio amico e ho trascritto il sogno. Poi ho accantonato quel ricordo, però la storia continuava a tormentarmi e ho deciso di scriverla: era una storia lunghissima, di trecento pagine. Successivamente ho frequentato un corso di scrittura creativa (del maestro Federico Bertozzi) che mi ha detto: “questa storia è molto bella, però l’idea surreale che hai avuto non può essere scritta in maniera realistica, narrativa, come si scrive in Italia.” Ha sistemato i plichi di ogni capitolo, li ha distribuiti sul pavimento e ha aggiunto: “adesso spostali, girali, invertili fino a che trovi un senso.” Li ho iniziati a spostare, ad invertire, dopo di questo ho cominciato a tagliare il romanzo perché era troppo lungo: da trecento pagine scritte in maniera consequenziale è diventato una pazzia surreale metafisica di novanta pagine. E solo così quel libro funziona.

3. Qualcuno l’ha paragonato ad un film di Lynch, altri ad un racconto di Don DeLillo.
È un notevole complimento. Ti ci rivedi? Quali sono, inoltre, gli scrittori che più ti hanno influenzato?

Ci sono state diverse persone che hanno associato il mio stile, il mio modo di scrivere a quello di DeLillo. Mi ha onorato perché è un autore che amo. Ad esempio: Body Art è un romanzo che a me ha impressionato veramente tanto, oppure Running dog (pubblicato in Italia con il titolo Cane che corre).

Sono romanzi che mi hanno dato tanto e quando ho sentito di questo paragone, oltre ad essere in imbarazzo – perché figurati, io piccolo e inutile scrittore della provincia di Milano contro il maestro per eccellenza della post-letteratura americana degli anni più recenti – mi sono sentito incoraggiato; sicuramente non scrivo come DeLillo, però quando mi è stato fatto questo paragone ci ho riflettuto su: effettivamente

Il dinosauro di plastica ha queste ambientazioni visionarie, metafisiche, fumose, un po’ sospese tra le realtà e l’immaginazione; inoltre il mio stile di scrittura effettivamente si avvicina molto, non dico a DeLillo, ma a quella cerchia di scrittori postmoderni americani, come Thomas Pynchon, Chuck Palahniuk, per citarne alcuni.

Tra gli altri scrittori che ti hanno influenzato?

Considero un maestro Andrea G. Pinketts, un autore di gialli.

In ambito internazionale penso a Murakami, a tutta la corrente asiatica, indiana, agli scrittori del Canada, a quelli dell’est Europa. Leggo principalmente gli americani, sicuramente Palahniuk (è il mio preferito), insieme a Charles Bukowski, Thomas Pynchon, Kerouac, ma anche Irvine Welsh. La mia formazione nasce in ambito della letteratura postmoderna americana. Mi piacciono anche i poeti della Beat Generation: Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso. La mia passione si muove da San Francisco a Las Vegas, lungo la West Coast americana.

Il dinosauro di plastica è semplicemente un elemento, un oggetto narrativo che mi è servito all’interno del romanzo. Non spiega assolutamente niente della storia. Io l’ho intitolato così anche in riferimento a diversi autori che mi piacciono, Pynchon ad esempio, ha scritto L’incanto del lotto 49, in cui questo lotto 49 è riferito ad una vendita all’asta, ma è solo un elemento del libro, non è che si fonda su quell’avvenimento lì; oppure Palahniuk ha scritto un libro che si chiama Rabbia, ma non parla esclusivamente della rabbia, questa è solo un elemento tra tanti.

Questo gioco è fatto anche per spiazzare un po’ il lettore e poiché mi è piaciuta molto un’idea del genere, mi sono permesso di farlo anch’io. Il dinosauro di plastica tra l’altro è l’unione di due termini, uno molto antico e uno iper-moderno, quindi mi piaceva mescolare insieme termini antitetici.

David Lynch: un altro paragone piacevole che ho ricevuto sempre sul Dinosauro di plastica è che è stato paragonato ad una sceneggiatura di Lynch o di Kieslowki, un autore polacco che amo.

È stato paragonato a La doppia vita di Veronika, come struttura narrativa li ho trovati molto simili.

Anche questo paragone lo prendo con le pinze, con umiltà, ma è anche bello ricevere questi riferimenti perché permettono di collocarti entro un certo ambito: io mi colloco tra quegli artisti anarchici, senza condizionamenti.

Se dovessi immaginare il mio futuro lo immagino così: non mi metterò mai a scrivere per soldi, perché se si dovesse verificare una situazione del genere, significa che la mia arte, le mie storie mi sono uscite dalla testa.

 

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